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martedì 24 marzo 2020

Invocatio ad Deos


Dèi della terra, del mare, dei cieli e aldilà d’essi, dedicate un instante ad ascoltare le lamentazioni d’un povero mortale; Dèi tutti, conosciuti agli uomini e sconosciuti ora, allora e dimenticati, perdonate il grido di dolore che si leva da tanta parte e porgete un istante del vostro incontabile tempo verso chi del tempo ha troppa coscienza e troppa fame; Dèi dei vivi, Dèi dei morti, Dèi di chi sarà e ancora non è, siate ora reali, scendete nella miseria di chi conta i passi, voi che passi non ne avete, e vi perdete nella vostra stessa sterminata immensità, bestia immonda ché svuota ogni cosa di significato.

Mi appello al vostro senso, al vostro infinito, sfidandolo con la povertà di chi sa che non ha il vostro tempo, sia essa una benedizione o una terribile punizione: datemi la forza! La forza di tutto, la forza che mi è sempre mancata, la forza che ancora non conosco, le forze di un giovane impetuoso e di un anziano ponderato; datemi la forza di render grazia all'esistenza, per quanto caduca, la forza di combattere i mali che avete creato e di cui siamo circondati, la forza del male che creiamo noi e la forza di resistere alla lirica del bene che facciamo, e che ci addormenta appagati. Datemela subito! Ora! Per combattere in ogni momento il senso vacuo dell’onnipotenza che mi sono inventato, e con me legioni di coscienze obnubilate dall'orgoglio e dalla vanità, e per combattere quelle stesse coscienze che ambiscono all'imposizione delle loro volontà verso chiunque altro per la sola passione per il potere, perché il potere che ci avete dato si misura con le lacrime che facciamo versare e che, con gli occhi brillanti, riusciamo a deglutire, in un sovrumano sforzo che stringe e spreme le nostre interiora. Datemela ora, ve ne prego, per renderla empatia verso chi sa che il male alberga nel profondo di ogni individuo, e l’unica maniera per sconfiggerlo è rassegnarsi ad esso, senza sperare in salvazione alcuna, perché l’unica salvazione che ci avete concesso è il silenzio dei sensi e dell’anima, e in questo stesso silenzio si dissipa il male che facciamo e il dolore che viviamo. Datemela, e ancora, e ancora datemene altra, fino a quando non esploderò d’essa e del desiderio che ci rende schiavi di noi stessi, della bramosia dei corpi e delle sensazioni che ci distraggono per pochi attimi dalla bieca coscienza della piccolezza del nostro essere transeunti, ingannandoci mentre affermiamo che abbiamo giocato Ade e Crono, e siamo finalmente noi, per pochi attimi fuggenti, coloro che si arrogano l’epiteto e il valore di infiniti e onnipotenti. Mostratemela, datemela la forza per poterla conoscere, perché la vacuità umana si misura in quanto non sappiamo ancora, in quanto non siamo capaci di immaginare, o prevedere, o pensare: datemi la forza per aprire gli occhi, per osservare il mondo per quello che è, per conoscere i fatti e le menzogne che avete sparso a piene mani in ogni angolo della nostra casa, e ancor più di quello, per le vite di noi mortali; pochi sono coloro che anelano la conoscenza, perché pochi sanno che niente è più egoista della conoscenza quando è solo per se stessi, e persino meno sanno che chi più sa più dubita, e ciò che desiderano è il più dolce dei veleni – solo io, Giovanni Faust e un pugno di matti lo sappiamo, e nonostante ciò, ogni giorno la desideriamo più ancora della stessa salvazione. Datemi la forza, questa è la mia supplica, solo per voi tutti, ora e per sempre, per resistere a quell'intensa e brutale ricerca che è l’esistenza che voi stessi ci avete donato, in un gesto che avete chiamato generosità ma che ha il sapore dello scherzo mendace, e che ci inchioda su questa terra ad interrogarci su che cosa sia, in un ragionamento senza fine e vivo di mille curve e ripensamenti, che può solo ambire a volere una risposta nonostante parta dal forse unico corretto presupposto possibile, ossia che non esiste una risposta, perché esistenza non è una domanda, non è questionabile: esistenza è. Esistenza è un dono non voluto, è evenemenziale, è constatazione, e dunque senza interrogativi possibili se non sul fatto che sia vera oppure una languida invenzione di un demiurgo sornione e compiaciuto della sua opera, ma che di fatto non si interessa di che fine possa fare: esistenza è. Esistenza è coscienza di noi esistenti e di ciò che ci circonda, spesso ma non sempre, perché l’esistenza stanca, addormenta poco alla volta, ci si abitua ad esistere – non ci ricordiamo neanche l’ultima volta che abbiamo respirato! Il nostro animo vagabondo vuole sempre piccole cose nuove e mai si ricorda che ci siamo e lottiamo ogni momento per sopravvivere meglio un giorno in più: esistenza è, e si declina solo al presente, perché il futuro non si può contare, e il passato sbiadisce e lascia il passo ai nostri desideri inesauditi e alle nostre menzogne per giustificare l’ora. Esistenza è, e ce l’avete data voi! Solo voi! Non ve la abbiamo chiesta, ma siamo qui, e non si torna indietro. Datemi la forza per render grazia all'esistenza, per quanto caduca, perché sventurati sono coloro che decidono di diventare voi e di reciderla: date loro la forza di resistere a loro stessi, e sorridere solo un giorno di più, e poi cento ancora. E allora datemi la forza, per rimanere umano, per non ambire a diventare voi, per non rassegnarmi a essere me: datemi la forza per avere una coscienza leggera e ponderata che mi guidi per le strade dell’esperienza, datemi la forza per avere passione nelle cose senza diventarne schiavo; datemi la forza per amare senza vergognarmene e non pensare che cedersi in un simposio amoroso sia un vile atto di debolezza, e datemi la forza per dare tutto me stesso a me stesso e a chi ho di fronte per il rispetto che ci è dovuto come esseri senzienti, e come innocenti inebriati d’amor cortese; datemi la forza per apprezzare senza peccare, perché troppo difficile è capire la grandezza della nostro tempo nel mondo e troppo facile è perdersi nelle piccolezze che pensiamo esserci dovute, ma la cui assenza di significato reale snatura solo noi stessi, rendendoci loro; datemi la forza di conoscere come è dato a noialtri, miseri esseri ambiziosi e incompleti: che la conoscenza ci sia lieta, e ci renda uno con i nostri simili, che orienti la nostra azione, e che ci renda ogni giorno migliori; che la conoscenza diventi forza, di resistere alle nostre bassezze e alle nostre ambizioni smodate, che ci renda apatici e atarassici e dunque cittadini dell’esistenza.

Dateci dunque, ve ne prego con tutta la forza che posso rendere invocazione, dateci la forza per resistere a voi, artefici di ogni bene, e di ogni male, e per questo destinati all'infamia peggiore, che è la nostra venerazione più profonda.

lunedì 24 novembre 2014

Vivere fuori.

Lisbona, 2009. Ero uno studente Erasmus come tanti, al massimo l'unica differenza che potevo accampare rispetto alla grande maggioranza degli altri studenti Erasmus era che avevo normalmente tra i 5 ed i 6 anni in più di loro, ma non avevo voglia di spiegare sempre a tutti la manfrina che mi ha condotto all'estero così attempato e con una quantità non indifferente di capelli bianchi al seguito. Ed oltre al dato anagrafico, spesso aggiungevo, tra me e me, che praticamente tutte le esperienze che belli pasciuti i miei colleghi Erasmus facevano per la prima volta, dalle mie parti erano invece già vecchie, o comunque vissute, o quantomeno passate, incontrate. 

Eppure.

A febbraio venne a trovarmi mio padre. Giretti per la città, birrini, qualche racconto, un po' più di baccalà. Da pochi giorni stavo con una ragazza tedesca. Conto del più e del meno. In fondo è piacevole narrare della propria vita fuori, visto che nonostante le esperienze che mi distinguevano da un po' - un bel po' - dagli altri studenti Erasmus, in verità in verità vi dico, che era comunque la prima volta che andavo a vivere da solo. Che preparavo il mio mangime. Che lavavo le mie mutande. Che andavo al supermercato non per togliermi uno sfizio, ma per prendere cose che mi servivano per sopravvivere. Formaggio industriale, tonno e detersivo per lavatrice. Cose che nella mia vita apparivano più o meno magicamente nel frigorifero di casa mia senza che muovessi un dito per farle apparire. 

Eppure. 

Non mi ricordo bene quali furono i termini della domanda, ma sta di fatto che mio padre, mentre tornavamo verso casa felici e pasciuti, mi chiede in fondo come stessero andando le cose. Cosa stessi facendo. Cosa significasse questo termine già nel 2009 eccessivamente inflazionato come "Erasmus" e su cui, qualche anno dopo, si sarebbero versati i proverbiali fiumi di inchiostro, spesso su basi strumentali e stereotipizzate, molto più raramente su basi esperienziali e cum grano salis, e che infine sfortunatamente ha prodotto quel concetto di sottocultura marketer conosciuto come Generazione Telemaco. Ovverosia, come propinare perle ai porci, consci del fatto che i porci scambieranno le perle per succulente patate e le mangeranno senza pensarci su, dozzinalmente come dozzinale è la loro capacità di interpretazione del mondo in cui vivono. Ma sorvolando su questa stringente e deprimente attualità, Come spiegare ad un onest'uomo col doppio dei miei anni che roba è un Erasmus? Ossia, come fare a spiegare l'essenza colta di un ente difficile da inquadrare come un'esperienza Erasmus? 

Per una volta sono grato ad un processo conoscitivo e interpretativo scaturito esclusivamente dall'intuizione, una sorta di processo mentale che nella mia narrativa decisamente misogina associo solamente alle donne, tale per cui quando degli amici spagnoli mi dissero un detto loro tale per cui l'essere umano è l'unico animale che inciampa per due volte sulla stessa pietra, io pensai subito in realtà che più che gli essere umani si dovrebbe dire "l'altra metà del cielo", perché a furia di dire ascolta il tuo cuore, il cuore ha sempre ragione, sei in overthinking, spengi il cervello, godi delle sensazioni e fidati di loro e tutte queste troiate da manuale delle giovani marmotte si finisce che magari le giovani non inciampano la seconda volta sulla stessa pietra perché se lo sentono, ma poi finiranno per non sapere il perché, dato che il processo conoscitivo intuitivo è puntuale e non ricorsivo, quindi occhio alla pietra, ma senza sapere il perché, ma in fondo non importa perché tanto è il cuore che ce lo dice, tutto il resto è superfluo, ma come al solito divago, e volevo solo dire che in realtà ebbi un'intuizione, o forse semplicemente la mia testa ha prodotto un'associazione dovuta ad un'occasione banale, ossia che non avevo pane in casa, o forse ne avevo poco ma cambia poco, in sostanza ho pensato che spiegare cosa fosse l'essenza di un Erasmus ad un omone di quasi 60 anni attraverso la descrizione di una gita in panetteria a Lisbona era la maniera migliore per salvare capra e cavoli.

Eppure.

Caro babbo, la tua domanda è interessante, ma non ti nascondo che mi mette un po' in difficoltà, visto che seppur i termini della questione siano semplici, ordinarî, ben definiti, in realtà darti una risposta che riesca a includere tutte o quasi le sfaccettature possibili del problema che mi poni potrebbe essere veramente un'impresa ardua, direi quasi titanica. Beh, io ci provo. Già ti ho spiegato come funziona all'università, cosa sto facendo e come procede. Hai visto che ora parlo anche in portoghese, ma su questo punto ci torniamo presto. Hai visto da foto e sentito dai racconti che esco, faccio, conosco gente, luoghi, e ogni tanto ho anche la mia libbra di carne di piaceri erotici e terreni. Insomma, sai già quello che faccio. Però ti spiego un dettaglio di tutto quello che sto facendo. Più che un dettaglio, è un aspetto sul quale vorrei tu meditassi un attimo. Perché è lì che si trova la risposta alla tua domanda. Ripensa a tutto quello che ti ho già raccontato e mettila in questi termini: io essenzialmente qui sto facendo un milione di cose che non ho mai fatto prima a Milano. Pensa a tutto quello che ti ho raccontato, ed aggiungici tutte le cose più banali possibili che nella vita di un uomo, ma sul serio le cose più banali, come per esempio andare a prendere il pane o un cubo di formaggio industriale al prezzo di pochi scellini. Ecco, se ci pensi bene, tutte queste cose qui in realtà solo perché sono svolte qui, hanno un valore aggiunto rispetto alla routine che acquisiscono a Milano. Voglio dire, te la metto in termini ancora più semplici, non perché stia correndo il rischio che tu non capisca, ma per renderti un'idea oltremodo cristallina, immagina come ti dicevo prima di andare a prendere il pane. Quante volte l'ho fatto a Milano? Cento? Mille? È sempre stata una cosa scontata, banale, ovvia. Prendere il pane qui invece. All'atto pratico è esattamente la stessa cosa. 

Eppure.

Eppure vai in una panetteria portoghese e i canoni del consuetudinario sono tagliati di netto. Non sai che pane prendere, perché il pane qui è diverso nella forma e nei colori e nei sapori. Non sai il nome, perché a Lisbona se chiedi letteralmente una pastadura o una michetta questi ti guardano come se tu fossi un alieno, e di fatto direi che lo sei. Devi usare una lingua diversa dalla tua materna, e neanche una lingua veicolare, visto che parlare in inglese in una panetteria lisbonese è come parlare swahili da un barbiere di Gela, ogni boiata che faccio qui, per quanto banale possa essere, ha un valore aggiunto di esperienza e di novità perché seppur quello che faccio è esattamente quello che faccio a Milano, vado al super, vado in uni, esco e bevo, prendo DUEDIPICCHE™, conosco nuova gente e via dicendo, qui tutto quello che faccio è nuovo e interessante perché è il contesto di vita che è diverso: le cose che faccio sono le stesse ma il fatto di farle in un contesto diverso rende le stesse azioni diverse ed in fondo più interessanti Anche il DUEDIPICCHE™? Sì anche quello. Il senso del vivere fuori è questo, dunque: la funzione delle cose che facciamo ovviamente non cambia, ma produrre un'azione in un contesto più o meno misconosciuto rende l'azione stessa diversa, forse perché non sappiamo a quali risultati possiamo arrivare: vai alla panetteria portoghese, prendi del pane, lo mangi e scopri che il pane che hai comprato è osceno perché ti sei spiegato male, perché quello che sembra una michetta in realtà è una confezione di Panemmerda™ di Papà Tazza, ossia la versione 2.0 degli sfacciottini di papà Barzotti, perché la panetteria in cui sei andato è abitata da topizombie e famiglie allargate, insomma, il fatto di aver stravolto il contesto dell'azione dà luogo a risultati altri rispetto ad un contesto più naturale. Questo è il senso dell'Erasmus. Facciamo un altro esempio semplice, immagina ad una festa. A quante feste sei andato te? Un milione. Bravo, anch'io, molte erano belle, altre un po' meno, altre erano oscene ma tant'è. Qui, una festa, implica conoscere un sacco di gente letteralmente da ogni parte d'Europa e del Mondo [l'unico Mondo che conta è l'Europa, quindi scusate la ridondanza, ndr], parli in una lingua che non è tua e che non è l'inglese, e ti devi rapportare a culture che conosci poco o per stereotipi. È come se qualunque cosa che facessi fosse svincolata da ogni approdo culturale sicuro: tutto è nuovo, tutto è a rischio. Non hai più il cordone ombelicale culturale che stringe teneramente tutti i guasconi di una compagnia in un gruppo più o meno plasmato, in cui le regole del gioco sono naturalmente chiare e condivise. Vai a parlare con un'israeliana e capirai un punto di vista diverso. E te lo dirà in portoghese. E se ci provi offrendole uno shottino attento che ti arriva uno schiaffone, perché non sei ebreo, perché hai offerto dell'alcool, e lo schiaffone sarà pure molto forte perché la tipa si è già sbobinata due anni di servizio militare obbligatorio. Quindi sai perfettamente che con le israeliane ci devi stare attento. E se questo è il caso più estremo che ti potevo raccontare di una festa qualunque, in ogni caso considera che di casi più o meno simili ce ne sono a bizzeffe. Ecco dunque cosa sto facendo io, hic et nunc: un Erasmus è quando qualunque cosa, anche la più banale che puoi immaginare, diventa una potenziale challenge, o quantomeno qualcosa che ti arricchisce di nuova esperienza, che ti insegna qualcosa, come andare a prendere il pane. 

Eppure.

È praticamente dal 2008 che non vivo più in pianta stabile a Milano. Sono stato a Torino, sono tornato in Portogallo, recentemente sono stato a Londra, a Parigi e ora mi trovo a Friburgo in Brisgovia, e prevedibilmente tornerò a Lisbona a breve. So più o meno cosa significa vivere fuori. Ho imparato che Once Erasmus, Forever Erasmus, e se n'è accorto anche il mio attuale padrone di casa, quando, mentre uscivo per l'ennesima volta, mi chiede se stessi interpretando la mia permanenza archivistica friburghese come un Erasmus, e gli risposi Erasmusleben, immer jut. Perché vivere fuori ti insegna sempre qualcosa di nuovo, che le regole di vita possono cambiare, che lo stravolgimento del posto nuovo ti permette di fare mente locale e capire meglio anche il proprio passato, e permette altresì di darsi delle nuove possibilità per il futuro. Ma aldilà dei discorsi ridondanti e magniloquenti, sono sicuro che voi tutti cari astanti sappiate già perfettamente cosa significa vivere fuori. E che aldilà dell'oggetto fuori dal quale si vive, che sia una casa, una città o semplicemente se stessi, vivere fuori è bello. Anche se arrovina un po' il fegato.

Excipit.

Finalmente torna l'Onda. Le cose non accadono per caso, ma siamo sempre noi a crearle e a volerle. Quindi quando vi raccontano che le cose succedono da sole, tipo "vedi che appena smetti di cercare una tipa apparirà da sola, funziona sempre così", fate un favore alla vostra intelligenza e non fidatevi di queste persone. L'uomo è fabbro della sua sorte, sempre, e le onde laterali non appaiono da sole: c'è sempre qualcuno dietro che le plasma e le lancia. Il caso ha voluto che io e a Malambr ci siamo dati appuntamento a Friburgo in Brisgovia, il caso ha creato le condizioni - archivio per me, Erasmus per lui - ma siamo stati noi ad essere fabbri, a decidere che sì, che si fa, che ci si becca. due anni dopo Monaco, un anno dopo l'Onda Laterale. Siamo tornati. Viviamo fuori. Perché le onde, anche quelle che marciano scostanti a latere, comunque vada vanno fuori. Fuori da sé, contro le altre. La cosa bella è che le onde laterali vincono. Sempre.  

martedì 18 novembre 2014

Vox Populi, Vox Dei

Da quando sono in Germania faccio un po' fatica a stare dietro all'attualità.
Di solito la maggior parte delle informazioni le ottengo dal paio di telegiornali che a casa ascolto mentre cucino e mangio.
Qui non ho il televisore, quindi questa routine va a farsi benedire.

Tuttavia, vuoi o non vuoi, qualcosa arriva sempre.
Che diamine, siamo nell'era dell'informatica, tutti al pc, tutti su Facebook, ogni tanto tra un video di gattini che non sanno saltare, un grillino che si incazza perché piovegovernoladro, la foto di un paio di poppe, qualche notizia arriva pure.

E mi è giunta voce che siano riusciti a far atterrare una sonda su una cometa.

lunedì 3 novembre 2014

Natürlich Deutsch, cap. 1


Ossia, l'ennesima cronaca di uno studente in Erasmus.




Chi non muore si rivede.

Magari voi che leggete non siete così ansiosi, ma personalmente a esistere ci ho un po' preso gusto, e conto di farmi vivo ogni tanto.
Come sta succedendo ora.

È passato ormai un anno dall'ultima volta che ho scritto per questo blog.
Ne è passata di acqua sotto i ponti.

"Ma perché tanto tempo?"